Non sarebbe probabilmente venuta al mondo e al pensiero una Società Italiana delle Letterate senza la letteratura che Laura Lepetit ha messo a disposizione e fatto esistere nella nostra lingua, e in mancanza di quei libri che uno dopo l’altro hanno segnato la nostra storia e resa leggibile la nostra stessa vita. Serviti, meglio che su un piatto d’argento, su un robusto e affidabile carapace di tartaruga, quei libri hanno lastricato infatti il paradiso delle nostre letture, e hanno permesso a tutte noi di riconoscerci in una figura – quella della lettrice – che basta da sola a dare nome a un destino.
Tutti preziosi e giusti, tutti irrinunciabili e insostituibili come lei li voleva, quei libri che sono stati le pietre miliari del nostro percorso formativo si sono rivelati anche le pietre, ovvero i mattoni, della nostra città: di una Cité des dames, voglio dire, di questo tempo, in cui come in quello di Christine de Pizan facciamo che regnino Giustizia, Ragione e Rettitudine. Costruita con “la malta del calamaio e la forza della penna” delle scrittrici scoperte, pubblicate e tradotte da Laura Lepetit, “più duratura del marmo e bella senza pari”, questa città disegnata, edificata e abitata dall’intelligenza femminile è di fatto la custode della memoria e dell’allegria del nostro essere al mondo, lo spazio di civiltà che durevolmente ci garantisce e ci assicura senz’altro la possibilità di sottrarci a cittadinanze sbagliate e a simulacri di autorità.
Siamo felici oggi di poter riconoscere apertamente a Laura Lepetit tutto questo, accogliendola fra noi con ammirata gratitudine per il suo lavoro quarantennale di editrice indefessa e femminista distratta. E desideriamo farle festa rendendo onore a quel suo catalogo che è insieme traccia di percorso, mappa di città e modello di biblioteca. Di una biblioteca inebriante e vertiginosa tanto quanto quella di Babele, di cui si racconta in un passo famoso che lievemente ritoccato, nell’opportuno rispetto di una lingua di genere, suona così:
“Quando si proclamò che la biblioteca comprendeva tutti i libri [delle donne] l’impressione fu di straordinaria felicità. Tutt[e le donne] si sentirono padrone di un tesoro intatto, segreto […], [denso] di apologie e di profezie che giustificavano per sempre gli atti di ciascuna, e serbavano prodigi per il suo futuro […]. L’universo [delle donne] era giustificato, e attingeva bruscamente le dimensioni illimitate della speranza” (J.L. Borges, Finzioni, trad. F. Lucentini, Einaudi 1980, p. 73).
È di questa straordinaria felicità, di questa illimitata ricchezza e speranza che vorremmo testimoniare oggi rendendo onore al lavoro di Laura Lepetit, che ci ha cambiato la vita non solo al livello “del credo e delle leggi” come direbbe Virginia Woolf ma anche “dei vestiti, dei tappeti e dell’arrosto” (Le tre ghinee, trad. A. Bottino, Feltrinelli 1979, p. 40), permettendoci di essere in tutto e per tutto le lettrici che siamo e di trasformare almeno una sezione della gloriosa Società delle Estranee in una promettente Società delle Letterate. Composta di donne comunque estranee, s’intende, al mondo nel quale non c’è verso di potersi riconoscere; ma libere e laboriose fra le mura della città felice che Laura Lepetit, geniale architetta, ha costruito per noi.